60esimo anniversario guerra Corea Del Nord
60esimo anniversario guerra Corea Del Nord
1950/2010: 60° anniversario della guerra di Corea
di Sergio Ricaldone
su altre testate del 05/06/2010
1950/2010: 60° anniversario della guerra di Corea, devastata dagli USA anche con armi chimiche e batteriologiche.
Sessant’anni sono un lasso di tempo abbastanza lungo che consente anche ai ricordi più nefasti e alle emozioni più violente, vissute nel corso di eventi drammatici come la guerra, di decantare, stemperarsi, persino di farci diventare indulgenti verso chi ha commesso le più grandi atrocità. Sempre, beninteso, che il tempo trascorso abbia permesso ai due nemici di allora , Corea del Nord e Stati Uniti - il nano e il gigante – di trovarsi, parlarsi, capirsi, rispettarsi reciprocamente e vivere in pace.
Nel caso della Corea del Nord è successo l’esatto contrario: il tempo della pace vera non è mai arrivato e il piccolo nano ha dovuto vivere sei decenni con la pistola del gigante puntata alla tempia.
Malgrado tutto, chi arriva nella capitale Pyongyang (che nel 1953 aveva solo tre case in piedi) osserva una città pulita, ordinata, efficiente, dallo stile quasi scandinavo. Dalla culla alla bara, ogni coreano gode dei diritti garantiti dallo Stato, il lavoro e il cibo innanzitutto, l’assistenza medica è gratuita, la scuola è obbligatoria fino ai 17 anni. Gli appartamenti degli operai sono piccoli, ma comodi e confortevoli. La gente, memore delle atrocità subite durante la guerra, è sempre convinta di vivere oggi in uno dei migliori mondi possibili e appare decisa a difendersi dagli intrusi.
Lo hanno constatato sul posto visitatori non certo indulgenti verso il comunismo e tanto meno verso il regime di Kim Il Sung e quello attuale di Kim Jong Il. Tra questi, Tiziano Terzani, come sempre raffinato e coinvolgente nei suoi reportage raccolti nel volume “Asia”. Ma poi, quando i visitatori assistono alle spettacolari parate militari di un piccolo esercito armato ed equipaggiato con armi moderne, i pregiudizi si fanno barriera, scatta la sindrome di Orwell in “1984”, e la Corea del Nord appare come l’incubo di una società totalitaria, circondata da un muro invalicabile, ossia un mostro armato fino ai denti che minaccia la pace e la stabilità di tutto l’Estremo Oriente. Nessuno si domanda se, dopo essere stata rasa al suolo già una volta nel 1950, ed essere stata tenuta sotto tiro per più di mezzo secolo, dai missili e dai B52 americani, la Corea del Nord non abbia il sacrosanto diritto di difendersi come ogni paese sovrano minacciato di distruzione nucleare. Credo sia utile fare un po’ di cronistoria vera di quei giorni terribili. Ci aiuterà a capire la tragica continuità del dramma che si continua a vivere oggi in quella parte del mondo e dei pericoli veri che sessant’anni fa ha vissuto l’intero pianeta. E per colpa di chi.
Il mondo sull’orlo di una guerra mondiale nucleare.
25 giugno 1950. Era da poco passato mezzogiorno quando Arturo Colombi, segretario del PCI della Lombardia, mi chiama nel suo ufficio, insieme ad alcuni altri compagni. Dopo averci mostrato i dispacci delle agenzie di stampa Reuters e A.P. annuncianti che l’esercito “comunista” della Corea del Nord aveva varcato il 38° parallelo e stata invadendo il sud del paese controllato dagli americani, ci aggiorna sui primi allarmanti giudizi ricevuti dalla direzione del partito. Abituato a soppesare bene ogni parola le conclusioni di Colombi, “dobbiamo aspettarci il peggio”, alludono ai rischi di una possibile terza guerra mondiale. Questa volta nucleare.
E’ il preludio di un dramma che, sebbene si stia svolgendo alla distanza di 9 fusi orari, ci fa apparire il mondo molto più piccolo e molto più fragile. La soverchiante regia imposta dai media occidentali riesce in pochi giorni a gettare nel panico i benpensanti dell’intero pianeta. Ricorda lo storico francese Gerard A.Jaeger : “Da New York a San Francisco si costruiscono ovunque rifugi antiaerei. La grancassa mediatica sostiene che la Corea è stata scelta come laboratorio militare dai comunisti quale premessa ad una loro offensiva contro il resto del mondo. Nei porti europei le barche a vela di qualunque stazza si vendono come arche di Noè. Si fa incetta di benzina, di viveri, ci sono lunghe code davanti ai consolati dell’America latina per ottenere un visto” (1).
L’epicentro dello scontro tra est e ovest, spesso raccontato dai “noir” di John Le Carrè, si sposta ora dal Charlie Point di Berlino al 38° parallelo che divide in due la penisola coreana. Con un differenza non da poco rispetto alla Germania divisa in quattro zone di occupazione: il sud è controllato militarmente e politicamente dagli Stati Uniti e governato da un quisling di estrema destra, Syngman Rhee, mentre il nord è una repubblica popolare sovrana governata dai comunisti. La propaganda non esita un attimo ad emettere la sentenza: è iniziata una guerra di aggressione di Pyongyang che, col sostegno di Mosca e Pechino, vuole annettersi l’intera Corea. Ma, come vedremo più avanti, le cause e la responsabilità del conflitto stanno altrove, e la posta in gioco ha ben altre dimensioni.
La nascita della Cina popolare moltiplica le dimensioni del “campo socialista”.
Questo repentino allargarsi del confronto socialismo/imperialismo dall’Europa all’Asia non è casuale. E’ il continente nel quale pochi mesi prima era stata proclamata la nascita della Repubblica Popolare cinese. I rapporti di forza tra i due blocchi antagonisti sono perciò cambiati e questo viene giudicato insopportabile dagli strateghi di Washington ossessionati dall’idea che il comunismo stia dilagando e perciò disposti a tutto pur di impedirne l’espansione.
Il 1950 si era palesato fin dall’inizio come un anno piuttosto difficile per le ambizioni geopolitiche della Casa Bianca. Il 13 gennaio l’Unione Sovietica chiede l’ammissione all’ONU della Cina popolare. Il 31 gennaio il campo socialista riconosce il governo di Ho Ci Minh in lotta per l’indipendenza del Vietnam. Il 14 febbraio Stalin e Mao Tse Tung firmano a Mosca un trattato di alleanza e di amicizia che suscita viva inquietudine in Occidente. Il 22 febbraio i comunisti sono messi al bando negli Stati Uniti ed è l’inizio della caccia alle streghe. In contemporanea la Casa Bianca ordina ai fisici di Teller di accelerare la costruzione della bomba H. Il 18 marzo viene lanciato l’appello di Stoccolma contro l’uso militare dell’atomo. Il successo raccolto da questo appello è immenso : ovunque nel mondo, su iniziativa dei comunisti, si raccolgono in poche settimane oltre seicento milioni di firme, ossia ben oltre i confini politici e ideologici dei promotori. Il 5 giugno gli Stati Uniti impongono al Giappone la messa al bando di ogni attività comunista sul suo territorio.
L’estrema destra americana accende la miccia della guerra.
Ormai è chiaro che la politica del presidente USA, Harry Truman, è dettata dai falchi: Douglas Mac Arthur, Foster e Allen Dulles, Edgar Hoover, G. Taft, Joseph MacCarty, già all’epoca vengono definiti “il partito della guerra preventiva al comunismo”. Il Pentagono, la CIA, il Dipartimento di Stato, l’FBI sono sotto il loro controllo.
In quella torrida giornata di giugno la lobby guerrafondaia era riuscita nell’intento ordito da tempo: accendere la miccia di una possibile terza guerra mondiale addossandone la colpa agli “invasori comunisti della Corea del Nord”. Qualcosa di simile a Saraievo e Danzica, i noti pretesti serviti a scatenare i primi due conflitti mondiali.
Era infatti da mesi che reparti militari sudcoreani, comandati da “consiglieri” americani agli ordini di Mc Arthur, si spingevano con continue provocazioni armate oltre il confine mettendo a ferro e fuoco i villaggi di frontiera. Un vero e proprio stillicidio con lo scopo di provocare una reazione che rendesse evidente l’intenzione dei comunisti di aggredire la Corea del Sud rendendo la trama presentabile al mondo come una nuova Pearl Harbour.
Ma fin dal primo giorno della cosiddetta “invasione”, come racconta il giornalista americano I.F. Stone nel suo libro “The Hidden History of the Corean War” del 1952, la versione fornita ai giornalisti dai portavoce del Pentagono comincia a far acqua da tutte le parti. Uno di loro ammette che “gli Stati Uniti si attendevano l’attacco”. L’ammiraglio Roscoe H. Hillenkoetter dichiara poi che “i servizi d’informazione americani erano a conoscenza che in Corea esistevano condizioni tali da poter provocare un’invasione quella settimana stessa o la successiva”. Insomma, tutto ben noto e calcolato, altro che una nuova Pearl Harbour.
A dissipare ogni dubbio ci pensa il governo di Pyongyang che documenta come nella notte del 24 giugno le forze sudcoreane avevano passato il parallelo in tre diversi punti ma erano state respinte. Dopo di che, esaurita la pazienza, Kim Il Sung ordina alle sue truppe di passare alla controffensiva. E per come si sono svolti i fatti successivi risulta chiaro che la decisione è stata presa senza consultare né Mosca né Pechino.
L’ONU delega il comando delle operazioni militari agli Stati Uniti.
Nel giro di poche ore, cogliendo al volo l’occasione offerta dalla volontaria assenza del delegato sovietico, gli Stati Uniti riescono ad ottenere dal Consiglio di sicurezza dell’ONU la condanna degli “aggressori” e la delega del comando di tutte le operazioni militari contro Pyongyang. Il colpaccio di immagine è notevole ed è dovuto ad una ingenuità diplomatica commessa dall’Unione Sovietica. Il delegato dell’URSS Malik aveva infatti abbandonato da circa sei mesi il proprio seggio al Consiglio di Sicurezza in segno di protesta per la mancata ammissione all’ONU della Cina popolare: un errore di tipo aventiniano (poi riconosciuto) compiuto per un eccesso di solidarietà con Pechino che lasciò nelle mani degli Stati Uniti la bandiera dell’ONU.
Ma ben presto la strategia militare del Quartier Generale di Tokio e il teatrale protagonismo del suo comandante in capo, generale Mc Arthur, toglie ogni dubbio sulle responsabilità e i veri scopi di quella guerra.
I.F.Stone, lo scrive apertamente nel libro sopra citato: “In una corte di giustizia si potrebbe sostenere che MacArthur stava cercando di trascinare gli Stati Uniti e le Nazioni Unite in una guerra con la Cina e la Russia. Egli tentava di provocare la terza guerra mondiale. Né Washington, né Parigi, né Londra avrebbero potuto pretendere di non essere state preavvisate”. Vengono altresì citate le deliranti parole del generale comandante dell’aviazione, Arvil Andersen : “Datemi l’ordine di farlo e in una settimana farò a pezzi i cinque depositi russi di bombe atomiche e quando mi trovassi davanti a Cristo potrei spiegargli che io ho salvato la civiltà” (2).
La guerra divampa e investe tutta la penisola coreana. Ma la strategia iniziale del Quartier Generale di MacArthur, non manca di sollevare perplessità e interrogativi. Alcune delle più prestigiose firme del giornalismo americano – Walter Lippmann, James Reston, Hanson Baldwin, I.F. Stone - non nascondono stupore per la condotta delle operazioni militari che consente ai nordcoreani di dilagare nel sud del paese fino a rinchiudere in un piccola sacca attorno al porto di Pusan ciò che resta dell’esercito sudcoreano e del contingente americano. Qualcuno comincia a chiedersi se non si tratti di una nuova Dunquerke asiatica volutamente pianificata.
La sospetta strategia a perdere del Pentagono
Se non fosse che la guerra è sempre una faccenda tremendamente seria, oltre che oscena, lo spettacolo parrebbe una commedia dell’assurdo: infatti al largo delle coste coreane incrocia la più potente flotta da guerra del mondo, mentre dalla basi giapponesi centinaia di bombardieri B29 sono in grado di levarsi in volo e annientare la capacità di resistenza di un insignificante nano militare quale era all’epoca la Corea del Nord. Invece Marina e Aviazione USA si voltano dall’altra parte e lasciano che un mini esercito di 40 mila uomini, sicuramente motivati, ma armati in modo primitivo, tenga sotto scacco la potente America che ha appena sconfitto un gigante militare come l’Impero del Sol levante.
Il 7 luglio il NYT scrive che “le armi catturate ai nordcoreani includevano fucili della prima guerra mondiale” e aggiungeva che “né l’esercito né l’aviazione nord coreana possedevano alcuna arma sovietica del dopoguerra”. Ma il paradosso più evidente è quello politico/diplomatico: URSS e Cina popolare (ovviamente solidali con la Corea del Nord) denunciano le provocazioni americane, protestano, si indignano, lanciano allarmi e moniti, ma non mostrano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere nel conflitto. Vogliono la pace e non fanno nulla per nasconderlo.
E i primi a capirlo sono gli americani in buona fede : “Il generalissimo Stalin con un calcio avrebbe potuto gettarci nel Mar di Corea, se solo l’avesse voluto. Ma stava diventando chiaro che Stalin non voleva aiutare i nordisti a darci questo calcio” scrive Hanson Baldwin sul NYT. Appariva dunque chiaro che i russi e i cinesi non intendevano intervenire nel conflitto per nessuna ragione e tanto meno entrare in una guerra a causa della Corea.
Ma è appunto a partire da questi due macroscopici paradossi che la guerra diventa dal luglio in poi un affare maledettamente serio. La lobby della “guerra preventiva al comunismo” rompe gli indugi e mostra i veri scopi di quella “strana” guerra pianificata da tempo. MacArthur non nasconde l’allarmante sintonia del suo pensiero con quello di Ciang Hai Shek che dal suo rifugio di Formosa farnetica di una imminente riconquista della Cina continentale anche a costo di una guerra mondiale nucleare.
L’imperialismo americano mostra le sue vere intenzioni.
Lo storico francese Gerard A. Jaeger scrive che di una terza guerra mondiale si era già iniziato a parlarne pochi mesi dopo la fine della seconda, e la Corea poteva essere “l’incidente perfetto” per regolare i conti con tutto l’universo comunista. “Stiamo scivolando verso la catastrofe” , scrive sul NYT, Walter Lippmann. “Una terza guerra mondiale è in preparazione” proclama Patrick Hurley, ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, mentre getta alle ortiche il suo bicorno da diplomatico. Più che esplicita la nota che il presidente Truman redige per il suo Segretario di Stato : “Se non mostriamo ai russi il nostro pugno di ferro una nuova guerra è in gestazione”.(3)
E’ appunto l’Unione Sovietica di Stalin e il potenziale propulsivo che esercita sul movimento operaio in Occidente a creare incubi sulle rive del Potomac. Un altro autore americano, I.A. Brown, citato da Jaeger, spiegherà poi nel suo libro “The US Plan war with the Soviet Union” l’esistenza di un piano “Dropshot” mirante a “scaricare sull’URSS , nei primi trenta giorni di guerra, centotrenta bombe atomiche su settanta città sovietiche, di cui otto su Mosca e sette su Leningrado (….). Infine più di sei milioni di soldati dovevano occupare i territori comunisti liberati.” (4)
Dopo avere ostentato per un paio di mesi il ruolo di vittima aggredita, Washington ritiene sia giunto il momento di ristabilire le giuste proporzioni con il nano impertinente che ha osato sfidare la sua potenza militare.
L’imponente sbarco del 15 settembre ad Inchon, presso Seul, in perfetto stile D-Day, ripropone ai marines di MacArthur i giorni della guerra totale. Marina e aviazione USA si scatenano, città e villaggi nordcoreani (e la stessa Seul) sono ridotti ad un cumulo di macerie. La strategia USA è sempre quella insegnata a West Point fin dai tempi dello sterminio degli indiani d’America: fare terra bruciata e ridurre il nemico all’età della pietra..
La penisola è tagliata in due e le truppe nordcoreane intrappolate al sud sono date per accerchiate e disperse, benchè i prigionieri esibiti siano solo poche centinaia. Il Quartiere Generale di Tokio canta vittoria. La strada verso la frontiera della Manciuria e quella dell’URSS è aperta. E tanto per non essere frainteso MacArthur lancia provocatori attacchi aerei contro il territorio sovietico e quello cinese: l’8 ottobre un aeroporto nei pressi di Vladivostok viene attaccato in pieno giorno da caccia bombardieri americani. Il 7 novembre la città di Sinuiju, sul confine della Manciuria, di fronte ad Antung, viene rasa al suolo dai B 29. “Con questi mezzi i guerrafondai speravano di appiccare il fuoco al mondo”(5).
Le misurate reazioni di Mosca e Pechino e i loro ripetuti inviti al cessate il fuoco vengono scambiati per segni di debolezza.
Da settembre a fine ottobre sono per MacArthur i giorni della vittoria. Le truppe al suo comando proseguono l’avanzata verso est e verso nord : Pyongyan, Wonsan, Hungnam vengono devastate e occupate. L’avanzata si spinge pericolosamente e irresponsabilmente verso il fiume Yalu, la frontiera che separa la Corea dalla Manciuria. Le grandi dighe che alimentano la regione più industrializzata della Cina popolare vengono bombardate. Al nord le truppe ONU sono ormai a pochi chilometri dalla frontiera sovietica.
La “valanga gialla” e la minaccia atomica contro Cina e URSS
Nei primi giorni di novembre accade perciò l’inevitabile: volontari cinesi, veterani della “lunga marcia”, passano il fiume Yalù per combattere a fianco dei nordcoreani. Prende corpo quello che il cinema razzista di Hollywood dipingerà, moltiplicando le cifre per cento, come lo scatenarsi della “valanga gialla” e delle “orde mongole”. La guerra assume dimensioni che gli strateghi di Washington avevano incautamente ignorato. Arroganza e presunzione fanno commettere a MacArthur lo stesso errore di Custer a Little Big Horn. La sua promessa ai soldati americani “a Natale tutti a casa” si sta trasformando in una micidiale trappola : “Mai un generale mise così pienamente in luce la trappola in cui insisteva a voler cacciare le sue truppe, né mai informò così tanto il nemico di tenere la trappola pronta perché stava arrivando” (6).
Nel giro di qualche settimana la situazione sul campo si capovolge e i marines capiscono che quel Natale lo dovranno invece passare accerchiati sui gelidi campi di battaglia del nord subendo l’iniziativa di un nemico che non fa sconti agli invasori. Il loro morale lo si indovina leggendo i resoconti dal fronte del NYT riassumibili nel gesto di Achille che sconsolatamente guarda al suo tallone. E’ ormai chiaro che i cinocoreani stanno mettendo nei guai la più potente forza militare del pianeta.
Il 30 novembre, nel corso di una conferenza stampa il presidente Truman ufficializza le voci di un possibile impiego dell’arma atomica contro la Cina e l’URSS. Il 16 dicembre la Casa Bianca decreta lo stato di emergenza in tutto il territorio americano e richiama alle armi tre milioni e mezzo di soldati americani. In molti fanno notare che l’iniziativa era già stata presa all’inizio di due guerre mondiali. Francia e Gran Bretagna, fedeli alleati, ingoiano l’amara pillola ma cominciano a domandarsi cosa stia accadendo in Corea. La prima è alle prese con due grosse gatte da pelare in Indocina e Algeria. La seconda sta facendo i conti con il dissolvimento del proprio impero. Entrambe cercano di uscire col minor danno possibile dal vespaio coreano. La stessa coalizione dei paesi ONU che sostengono gli Stati Uniti, comincia ad incrinarsi.
Capovolte le sorti del conflitto.
Appaiono sempre più chiari due elementi nuovi di questa guerra : gli Stati Uniti la stanno perdendo sul campo di battaglia mentre i due principali antagonisti, URSS e Cina non vogliono umiliare militarmente l’aggressore ma bensì ristabilire lo status quo antecedente al conflitto. Nel mese di dicembre le sorti del conflitto si sono capovolte e i marines di MacArthur, accerchiati a migliaia nell’estremo nord, subiscono una grossa disfatta . Ma i cinocoreani non infieriscono e lasciano aperto un varco che permetta loro di iniziare la ritirata fin sotto il 38° parallelo. Il primo gennaio 1951, liberato il nord, i cinocoreani rimettono piede a Seul e ostentatamente si fermano. Nei tre mesi successivi le operazioni militari languono in attesa di soluzioni politiche e MacArthur cerca la rivincita sui giornali sparandole grosse. Si vanta di avere fatto 134.616 prigionieri in due mesi di disastrosa ritirata, più di quanti ne hanno fatto i sovietici nella vittoriosa battaglia di Stalingrado Ma le cifre di H.Baldwin sul NYT sono alquanto diverse: “Noi sapevamo di avere esattamente 616 comunisti cinesi prigionieri. Non molto contro gli 8531 americani prigionieri del nemico” (7). Cifre, quelle di MacArthur, ancor più ridicole se rapportate al numero dei volontari cinesi presenti in Corea: 75 mila secondo l’Associated Press, 50 mila secondo il NYT.
Il 24 marzo i cinocoreani si ritirano sul 38° parallelo con la chiara intenzione di restarci. Il 2 aprile il nuovo ministro degli esteri britannico, Herbert Morrison, dichiara che MacArthur deve essere rimosso e che devono iniziare conversazioni di pace. L’11 aprile, il presidente Harry Truman, considerato il rischio di lasciare un pericoloso piromane come MacArthur a gestire l’incendio coreano, lo licenzia dal comando delle truppe ONU sostituendolo col generale Ridgway.
La guerra avrebbe potuto finire lì con un risultato di parità. Gli Stati Uniti avrebbero salvato l’onore e la faccia, la Corea quel poco che era rimasto in piedi dopo i bombardamenti dei B 29. E invece durò ancora per quasi tre anni senza peraltro cambiare di un metro i risultati territoriali acquisiti sul campo. Ma erano gli anni della caccia alle streghe del senatore Mac Carty.
Si scatena il terrorismo chimico e batteriologico.
Lo spettro della “valanga gialla”, alimentato dalle sconfitte militari, dalla paranoia anticomunista e dall’intenso traffico di bare dei soldati caduti nel cimitero di Arlington in Virginia, indusse il presidente Truman a dare il via libera all’uso di armi chimiche, batteriologiche e nucleari contro la Cina e la Corea, il solo modo che restava alla superpotenza di consumare una feroce vendetta contro il piccolo popolo che l’aveva sfidata. Ma la Gran Bretagna e altre nazioni “alleate” si opposero apertamente all’uso delle bombe atomiche, temendo che l’Unione Sovietica, i cui bombardieri distavano due ore di volo da Londra, decidesse di rendere pan per focaccia. Gli Stati Uniti, sempre più soli militarmente, dovettero pertanto limitarsi a sperimentare in prima battuta la nuova tremenda miscela chimica chiamata napalm le cui bombe furono lanciate a migliaia sulla Corea del Nord.
Il terrorismo di massa praticato con l’arma aerea si scatena con tutta la sua micidiale potenza distruttiva contro gli esseri umani e quel poco che è rimasto ancora in piedi. Persino i fienili delle case contadine diventano, in mancanza d’altro, bersaglio dei cacciabombardieri USA.
Ma gli eroici difensori della civiltà occidentale fecero anche di peggio: alimenti infetti (cereali e altre “ghiottonerie”) furono disseminate su zone densamente popolate con l’intenzione di sterminare i civili affamati. I coreani che consumavano derrate infette morivano dopo avere sputato sangue per due/tre giorni.
I segreti di questa sporca guerra sono rimasti a lungo sotto chiave negli archivi top secret del Pentagono e il popolo americano ha sempre ignorato quello che le unità della guerra batteriologica hanno compiuto in Corea fino a che due storici americani dell’Università dell’Indiana, Stephen Endicott e Edward Hagerman, sono riusciti a documentarlo con prove schiaccianti. Nel loro libro – The Unided States and Biological Warfare – Indiana University Press, 1999, si legge di come il Pentagono, si sia servito dell’esperienza di un criminale di guerra giapponese, il generale Ishii, già responsabile della guerra batteriologica contro i cinesi, in Manciuria nel 1937. Reclutato e riciclato dal Pentagono alla causa del “mondo libero”, per la modesta cifra di 25 mila yen, il generale Ishii e alcuni suoi collaboratori furono trasferiti negli Stati Uniti con il grado di “consiglieri speciali” degli esperti americani del settore (. Gli autori citano inoltre le testimonianze dei piloti americani che parteciparono direttamente alla guerra batteriologica (9).
Questo immane massacro compiuto con mezzi chimici, convenzionali e batteriologici è durato, con intensità più o meno maggiore, fino al giorno dell’armistizio, firmato a Panmunjon il 27 luglio 1953. Più di due milioni di morti su una popolazione inferiore ai venti milioni è il prezzo pagato dal popolo nordcoreano. E col paese ridotto ad un cumulo di macerie. Quali le ragioni che hanno scatenato un simile ondata di barbarie ? Perché sessanta anni dopo la fine di quella guerra lo scenario coreano presenta ancora analogie e prospettive altrettanto tenebrose e inquietanti ?
Sessant’anni di precario armistizio sul 38° parallelo.
Occorre innanzitutto ricordare che anche dopo la firma dell’armistizio gli Stati Uniti si sono ben guardati dal concludere una vera pace. E’ invece continuato uno stato di “non guerra”, ovvero di “guerra strisciante” accompagnata da tantissimi “incidenti”. Questi sei decenni sono stati, per la superpotenza, un infinito alternarsi di bugie, minacce, provocazioni militari, false promesse, finte aperture, fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati.
La Corea del Nord è così diventata, giorno dopo giorno di violenti attacchi mediatici, il prototipo dello “stato canaglia”. Non occorre andare molto indietro nel tempo per riscoprire la ossessiva continuità delle ambizioni imperialiste di Washington verso questa piccola porzione di territorio dell’Estremo Oriente, insignificante per dimensioni, ma diventato il crocevia di traffici economici e politici di tre giganti economici, Cina, Russia e Giappone, destinati a diventare nell’immediato futuro, insieme a tutta l’Asia, il centro del mondo contemporaneo.
Secondo Gavan Mc Cormack, grande conoscitore della Corea e autore del libro: “Target North Korea: Pushing North Korea to the brink of nuclear castrophe”, Nation Books, New York, 2004, le ragioni che inducono Washington a tenere la pistola puntata alla testa di Pyongyang sono coerenti con le sue ambizioni imperiali: il pericolo nordcoreano, reale o inventato che sia, concorre a giustificare il dominio che gli Stati Uniti esercitano sul Giappone e la Corea del Sud sotto forma di una massiccia presenza militare e nucleare. Senza questa minaccia, afferma l’autore, “gli strateghi di Washington dovranno trovarsi altre ragioni per perpetuare le loro basi in questi due paesi e per la messa in opera del costosissimo sistema antimissile progettato per questa regione”, costruito a presidio di una postazione strategica avanzata di vitale importanza. La Corea è infatti una gigantesca portaerei terrestre che consente ai bombardieri e ai missili USA di raggiungere in pochi minuti sia la Cina che la Russia.
Sono dunque decenni che Washington aspira a rovesciare, in un modo o in un altro, il regime al potere a Pyongyang ma, paradossalmente, se questo dovesse succedere, sostiene Gavan Mc Cormack, i suoi alleati, Sud Corea e Giappone, non avrebbero più alcun motivo di restare subalterni agli Stati Uniti sul piano strategico. Anzi, un indebolimento dell’egemonia americana in Asia Orientale spingerebbe invece a rafforzare i legami tra i paesi della regione che, grazie al loro dinamismo economico sarebbero in grado di trascinare e integrare, dopo qualche riforma, anche la Corea del Nord. Che ne sarebbe allora del predominio americano in un area considerata dalla Casa Bianca un crocevia strategico di importanza planetaria ?
Certo, gli strateghi americani dispongono di un “nemico” di riserva in grado di rimpiazzare la Corea del Nord, ma le dimensioni di questo “nemico”, la Cina, sconsigliano qualsiasi replica di una politica basata sulle minacce militari come quella seguita contro Pyongyang.
Gli Stati Uniti devono comunque continuare ad avere un vero nemico per poter continuare a mantenere la rete di basi militari in Asia orientale e per giustificare la presenza di quasi centomila soldati, di cui 37 mila in sud Corea. Per mantenere efficiente questo dispositivo militare e per poterlo modernizzare senza sosta, specie quello nucleare, Washington non ha altra scelta che quella di perpetuare il confronto con Pyongyang, qualunque sia stato e sia il presidente in carica alla Casa Bianca: da Harry Truman a Barak Obama, nessuno escluso.(10)
Non è dunque senza ragione che il popolo del nord non abbia mai dimenticato i due milioni di morti massacrati dagli americani. I loro fantasmi sono sempre presenti nell’immaginario collettivo. Solo una normalizzazione pacifica dei rapporti nord-sud e l’avvio di un processo di riunificazione potrebbe farli dissolvere. Ma è appunto quello che la superpotenza americana teme di più e cerca in tutti i modi di impedirlo.
Rileggendo senza pregiudizi i fatti che hanno impietosamente segnato la lunga storia del conflitto tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti come è possibile credere alla ennesima provocazione del sommergibile fantasma che affonda la corvetta sudcoreana ? Ma per favore………
Note:
1) Gerard A: Jaeger “Les Rosemberg”, Edition du Felin, 2003
2) I.F. Stone “The Hidden History of the Corean War”, Monthly Review Press, New York, 1952.
3) Gerard A. Jaeger “Les Rosemberg”
4) Ibidem
5) I.F: Stone
6) Ibidem
7) ibidem
“Il progetto giapponese si basava essenzialmente sull’antrace ed era già stato testato su 1000 soggetti umani, tra cui 150 prigionieri di guerra americani. Nel 1945 i giapponesi avevano uno stock di 400 kg. di antrace. I germi erano stati lanciati sopra città cinesi dentro bombe speciali che si aprivano a un’altitudine programmata disseminando il loro contenuto su una superficie molto estesa. I giapponesi avevano inoltre osservato che gettando pulci infette sui campi di cereali i germi si diffondevano rapidamente veicolati dai roditori. (….) La tattica americana di guerra batteriologica contro la Corea del Nord è stata assai simila a quella del progetto giapponese “731”. Le bombe USA erano caricate con insetti e prodotti vegetali infettati ed erano trasportate da aerei pilotati da ufficiali superiori che volavano in coda alle formazioni di bombardieri. Le bombe batteriologiche venivano perciò sganciate dopo quelle “normali”. Dopo ogni attacco le squadre nordcoreane che arrivavano sul posto per curare i feriti e riparare i danni diventavano potenziali diffusori dei batteri.”
9) “Almeno 36 piloti americani catturati hanno confessato di avere lanciato bombe batteriologiche su obbiettivi coreani e cinesi. Le loro confessioni menzionano in dettaglio il luogo di fabbricazione delle armi (Terra Alta, Indiana), la struttura di comando della guerra batteriologica (Unita 406 di base in Giappone), i tipi di batteri usati e molti dettagli sulle tattiche dei bombardamenti. Questi ufficiali sono stati rimpatriati nel 1953 e, come era prevedibile, hanno ritrattato le loro confessione dopo essere stati minacciati di deferimento alla corte marziale. Analogamente, scienziati e giornalisti che avevano osato rivelare qualche sporco segreto sono stati ridotti al silenzio sotto minaccia di essere processati per tradimento”.
10) Bruce Cuming, esperto americano di politica asiatica dell’Università di Chicago, ha scritto recentemente che nel giugno 1994 l’amministrazione Clinton, ben prima di Bush, si era trovata ad un passo dal lanciare un attacco preventivo contro i reattori nucleari nordcoreani di Yongbyon, a circa 60 km. dalla capitale Pyongyang. Quattro mesi più tardi , grazie all’intervento moderatore di Jimmy Carter, i nordcoreani furono convinti ad accettare l’accordo “frame work” negoziato con l’amministrazione Clinton.
di Sergio Ricaldone
su altre testate del 05/06/2010
1950/2010: 60° anniversario della guerra di Corea, devastata dagli USA anche con armi chimiche e batteriologiche.
Sessant’anni sono un lasso di tempo abbastanza lungo che consente anche ai ricordi più nefasti e alle emozioni più violente, vissute nel corso di eventi drammatici come la guerra, di decantare, stemperarsi, persino di farci diventare indulgenti verso chi ha commesso le più grandi atrocità. Sempre, beninteso, che il tempo trascorso abbia permesso ai due nemici di allora , Corea del Nord e Stati Uniti - il nano e il gigante – di trovarsi, parlarsi, capirsi, rispettarsi reciprocamente e vivere in pace.
Nel caso della Corea del Nord è successo l’esatto contrario: il tempo della pace vera non è mai arrivato e il piccolo nano ha dovuto vivere sei decenni con la pistola del gigante puntata alla tempia.
Malgrado tutto, chi arriva nella capitale Pyongyang (che nel 1953 aveva solo tre case in piedi) osserva una città pulita, ordinata, efficiente, dallo stile quasi scandinavo. Dalla culla alla bara, ogni coreano gode dei diritti garantiti dallo Stato, il lavoro e il cibo innanzitutto, l’assistenza medica è gratuita, la scuola è obbligatoria fino ai 17 anni. Gli appartamenti degli operai sono piccoli, ma comodi e confortevoli. La gente, memore delle atrocità subite durante la guerra, è sempre convinta di vivere oggi in uno dei migliori mondi possibili e appare decisa a difendersi dagli intrusi.
Lo hanno constatato sul posto visitatori non certo indulgenti verso il comunismo e tanto meno verso il regime di Kim Il Sung e quello attuale di Kim Jong Il. Tra questi, Tiziano Terzani, come sempre raffinato e coinvolgente nei suoi reportage raccolti nel volume “Asia”. Ma poi, quando i visitatori assistono alle spettacolari parate militari di un piccolo esercito armato ed equipaggiato con armi moderne, i pregiudizi si fanno barriera, scatta la sindrome di Orwell in “1984”, e la Corea del Nord appare come l’incubo di una società totalitaria, circondata da un muro invalicabile, ossia un mostro armato fino ai denti che minaccia la pace e la stabilità di tutto l’Estremo Oriente. Nessuno si domanda se, dopo essere stata rasa al suolo già una volta nel 1950, ed essere stata tenuta sotto tiro per più di mezzo secolo, dai missili e dai B52 americani, la Corea del Nord non abbia il sacrosanto diritto di difendersi come ogni paese sovrano minacciato di distruzione nucleare. Credo sia utile fare un po’ di cronistoria vera di quei giorni terribili. Ci aiuterà a capire la tragica continuità del dramma che si continua a vivere oggi in quella parte del mondo e dei pericoli veri che sessant’anni fa ha vissuto l’intero pianeta. E per colpa di chi.
Il mondo sull’orlo di una guerra mondiale nucleare.
25 giugno 1950. Era da poco passato mezzogiorno quando Arturo Colombi, segretario del PCI della Lombardia, mi chiama nel suo ufficio, insieme ad alcuni altri compagni. Dopo averci mostrato i dispacci delle agenzie di stampa Reuters e A.P. annuncianti che l’esercito “comunista” della Corea del Nord aveva varcato il 38° parallelo e stata invadendo il sud del paese controllato dagli americani, ci aggiorna sui primi allarmanti giudizi ricevuti dalla direzione del partito. Abituato a soppesare bene ogni parola le conclusioni di Colombi, “dobbiamo aspettarci il peggio”, alludono ai rischi di una possibile terza guerra mondiale. Questa volta nucleare.
E’ il preludio di un dramma che, sebbene si stia svolgendo alla distanza di 9 fusi orari, ci fa apparire il mondo molto più piccolo e molto più fragile. La soverchiante regia imposta dai media occidentali riesce in pochi giorni a gettare nel panico i benpensanti dell’intero pianeta. Ricorda lo storico francese Gerard A.Jaeger : “Da New York a San Francisco si costruiscono ovunque rifugi antiaerei. La grancassa mediatica sostiene che la Corea è stata scelta come laboratorio militare dai comunisti quale premessa ad una loro offensiva contro il resto del mondo. Nei porti europei le barche a vela di qualunque stazza si vendono come arche di Noè. Si fa incetta di benzina, di viveri, ci sono lunghe code davanti ai consolati dell’America latina per ottenere un visto” (1).
L’epicentro dello scontro tra est e ovest, spesso raccontato dai “noir” di John Le Carrè, si sposta ora dal Charlie Point di Berlino al 38° parallelo che divide in due la penisola coreana. Con un differenza non da poco rispetto alla Germania divisa in quattro zone di occupazione: il sud è controllato militarmente e politicamente dagli Stati Uniti e governato da un quisling di estrema destra, Syngman Rhee, mentre il nord è una repubblica popolare sovrana governata dai comunisti. La propaganda non esita un attimo ad emettere la sentenza: è iniziata una guerra di aggressione di Pyongyang che, col sostegno di Mosca e Pechino, vuole annettersi l’intera Corea. Ma, come vedremo più avanti, le cause e la responsabilità del conflitto stanno altrove, e la posta in gioco ha ben altre dimensioni.
La nascita della Cina popolare moltiplica le dimensioni del “campo socialista”.
Questo repentino allargarsi del confronto socialismo/imperialismo dall’Europa all’Asia non è casuale. E’ il continente nel quale pochi mesi prima era stata proclamata la nascita della Repubblica Popolare cinese. I rapporti di forza tra i due blocchi antagonisti sono perciò cambiati e questo viene giudicato insopportabile dagli strateghi di Washington ossessionati dall’idea che il comunismo stia dilagando e perciò disposti a tutto pur di impedirne l’espansione.
Il 1950 si era palesato fin dall’inizio come un anno piuttosto difficile per le ambizioni geopolitiche della Casa Bianca. Il 13 gennaio l’Unione Sovietica chiede l’ammissione all’ONU della Cina popolare. Il 31 gennaio il campo socialista riconosce il governo di Ho Ci Minh in lotta per l’indipendenza del Vietnam. Il 14 febbraio Stalin e Mao Tse Tung firmano a Mosca un trattato di alleanza e di amicizia che suscita viva inquietudine in Occidente. Il 22 febbraio i comunisti sono messi al bando negli Stati Uniti ed è l’inizio della caccia alle streghe. In contemporanea la Casa Bianca ordina ai fisici di Teller di accelerare la costruzione della bomba H. Il 18 marzo viene lanciato l’appello di Stoccolma contro l’uso militare dell’atomo. Il successo raccolto da questo appello è immenso : ovunque nel mondo, su iniziativa dei comunisti, si raccolgono in poche settimane oltre seicento milioni di firme, ossia ben oltre i confini politici e ideologici dei promotori. Il 5 giugno gli Stati Uniti impongono al Giappone la messa al bando di ogni attività comunista sul suo territorio.
L’estrema destra americana accende la miccia della guerra.
Ormai è chiaro che la politica del presidente USA, Harry Truman, è dettata dai falchi: Douglas Mac Arthur, Foster e Allen Dulles, Edgar Hoover, G. Taft, Joseph MacCarty, già all’epoca vengono definiti “il partito della guerra preventiva al comunismo”. Il Pentagono, la CIA, il Dipartimento di Stato, l’FBI sono sotto il loro controllo.
In quella torrida giornata di giugno la lobby guerrafondaia era riuscita nell’intento ordito da tempo: accendere la miccia di una possibile terza guerra mondiale addossandone la colpa agli “invasori comunisti della Corea del Nord”. Qualcosa di simile a Saraievo e Danzica, i noti pretesti serviti a scatenare i primi due conflitti mondiali.
Era infatti da mesi che reparti militari sudcoreani, comandati da “consiglieri” americani agli ordini di Mc Arthur, si spingevano con continue provocazioni armate oltre il confine mettendo a ferro e fuoco i villaggi di frontiera. Un vero e proprio stillicidio con lo scopo di provocare una reazione che rendesse evidente l’intenzione dei comunisti di aggredire la Corea del Sud rendendo la trama presentabile al mondo come una nuova Pearl Harbour.
Ma fin dal primo giorno della cosiddetta “invasione”, come racconta il giornalista americano I.F. Stone nel suo libro “The Hidden History of the Corean War” del 1952, la versione fornita ai giornalisti dai portavoce del Pentagono comincia a far acqua da tutte le parti. Uno di loro ammette che “gli Stati Uniti si attendevano l’attacco”. L’ammiraglio Roscoe H. Hillenkoetter dichiara poi che “i servizi d’informazione americani erano a conoscenza che in Corea esistevano condizioni tali da poter provocare un’invasione quella settimana stessa o la successiva”. Insomma, tutto ben noto e calcolato, altro che una nuova Pearl Harbour.
A dissipare ogni dubbio ci pensa il governo di Pyongyang che documenta come nella notte del 24 giugno le forze sudcoreane avevano passato il parallelo in tre diversi punti ma erano state respinte. Dopo di che, esaurita la pazienza, Kim Il Sung ordina alle sue truppe di passare alla controffensiva. E per come si sono svolti i fatti successivi risulta chiaro che la decisione è stata presa senza consultare né Mosca né Pechino.
L’ONU delega il comando delle operazioni militari agli Stati Uniti.
Nel giro di poche ore, cogliendo al volo l’occasione offerta dalla volontaria assenza del delegato sovietico, gli Stati Uniti riescono ad ottenere dal Consiglio di sicurezza dell’ONU la condanna degli “aggressori” e la delega del comando di tutte le operazioni militari contro Pyongyang. Il colpaccio di immagine è notevole ed è dovuto ad una ingenuità diplomatica commessa dall’Unione Sovietica. Il delegato dell’URSS Malik aveva infatti abbandonato da circa sei mesi il proprio seggio al Consiglio di Sicurezza in segno di protesta per la mancata ammissione all’ONU della Cina popolare: un errore di tipo aventiniano (poi riconosciuto) compiuto per un eccesso di solidarietà con Pechino che lasciò nelle mani degli Stati Uniti la bandiera dell’ONU.
Ma ben presto la strategia militare del Quartier Generale di Tokio e il teatrale protagonismo del suo comandante in capo, generale Mc Arthur, toglie ogni dubbio sulle responsabilità e i veri scopi di quella guerra.
I.F.Stone, lo scrive apertamente nel libro sopra citato: “In una corte di giustizia si potrebbe sostenere che MacArthur stava cercando di trascinare gli Stati Uniti e le Nazioni Unite in una guerra con la Cina e la Russia. Egli tentava di provocare la terza guerra mondiale. Né Washington, né Parigi, né Londra avrebbero potuto pretendere di non essere state preavvisate”. Vengono altresì citate le deliranti parole del generale comandante dell’aviazione, Arvil Andersen : “Datemi l’ordine di farlo e in una settimana farò a pezzi i cinque depositi russi di bombe atomiche e quando mi trovassi davanti a Cristo potrei spiegargli che io ho salvato la civiltà” (2).
La guerra divampa e investe tutta la penisola coreana. Ma la strategia iniziale del Quartier Generale di MacArthur, non manca di sollevare perplessità e interrogativi. Alcune delle più prestigiose firme del giornalismo americano – Walter Lippmann, James Reston, Hanson Baldwin, I.F. Stone - non nascondono stupore per la condotta delle operazioni militari che consente ai nordcoreani di dilagare nel sud del paese fino a rinchiudere in un piccola sacca attorno al porto di Pusan ciò che resta dell’esercito sudcoreano e del contingente americano. Qualcuno comincia a chiedersi se non si tratti di una nuova Dunquerke asiatica volutamente pianificata.
La sospetta strategia a perdere del Pentagono
Se non fosse che la guerra è sempre una faccenda tremendamente seria, oltre che oscena, lo spettacolo parrebbe una commedia dell’assurdo: infatti al largo delle coste coreane incrocia la più potente flotta da guerra del mondo, mentre dalla basi giapponesi centinaia di bombardieri B29 sono in grado di levarsi in volo e annientare la capacità di resistenza di un insignificante nano militare quale era all’epoca la Corea del Nord. Invece Marina e Aviazione USA si voltano dall’altra parte e lasciano che un mini esercito di 40 mila uomini, sicuramente motivati, ma armati in modo primitivo, tenga sotto scacco la potente America che ha appena sconfitto un gigante militare come l’Impero del Sol levante.
Il 7 luglio il NYT scrive che “le armi catturate ai nordcoreani includevano fucili della prima guerra mondiale” e aggiungeva che “né l’esercito né l’aviazione nord coreana possedevano alcuna arma sovietica del dopoguerra”. Ma il paradosso più evidente è quello politico/diplomatico: URSS e Cina popolare (ovviamente solidali con la Corea del Nord) denunciano le provocazioni americane, protestano, si indignano, lanciano allarmi e moniti, ma non mostrano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere nel conflitto. Vogliono la pace e non fanno nulla per nasconderlo.
E i primi a capirlo sono gli americani in buona fede : “Il generalissimo Stalin con un calcio avrebbe potuto gettarci nel Mar di Corea, se solo l’avesse voluto. Ma stava diventando chiaro che Stalin non voleva aiutare i nordisti a darci questo calcio” scrive Hanson Baldwin sul NYT. Appariva dunque chiaro che i russi e i cinesi non intendevano intervenire nel conflitto per nessuna ragione e tanto meno entrare in una guerra a causa della Corea.
Ma è appunto a partire da questi due macroscopici paradossi che la guerra diventa dal luglio in poi un affare maledettamente serio. La lobby della “guerra preventiva al comunismo” rompe gli indugi e mostra i veri scopi di quella “strana” guerra pianificata da tempo. MacArthur non nasconde l’allarmante sintonia del suo pensiero con quello di Ciang Hai Shek che dal suo rifugio di Formosa farnetica di una imminente riconquista della Cina continentale anche a costo di una guerra mondiale nucleare.
L’imperialismo americano mostra le sue vere intenzioni.
Lo storico francese Gerard A. Jaeger scrive che di una terza guerra mondiale si era già iniziato a parlarne pochi mesi dopo la fine della seconda, e la Corea poteva essere “l’incidente perfetto” per regolare i conti con tutto l’universo comunista. “Stiamo scivolando verso la catastrofe” , scrive sul NYT, Walter Lippmann. “Una terza guerra mondiale è in preparazione” proclama Patrick Hurley, ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, mentre getta alle ortiche il suo bicorno da diplomatico. Più che esplicita la nota che il presidente Truman redige per il suo Segretario di Stato : “Se non mostriamo ai russi il nostro pugno di ferro una nuova guerra è in gestazione”.(3)
E’ appunto l’Unione Sovietica di Stalin e il potenziale propulsivo che esercita sul movimento operaio in Occidente a creare incubi sulle rive del Potomac. Un altro autore americano, I.A. Brown, citato da Jaeger, spiegherà poi nel suo libro “The US Plan war with the Soviet Union” l’esistenza di un piano “Dropshot” mirante a “scaricare sull’URSS , nei primi trenta giorni di guerra, centotrenta bombe atomiche su settanta città sovietiche, di cui otto su Mosca e sette su Leningrado (….). Infine più di sei milioni di soldati dovevano occupare i territori comunisti liberati.” (4)
Dopo avere ostentato per un paio di mesi il ruolo di vittima aggredita, Washington ritiene sia giunto il momento di ristabilire le giuste proporzioni con il nano impertinente che ha osato sfidare la sua potenza militare.
L’imponente sbarco del 15 settembre ad Inchon, presso Seul, in perfetto stile D-Day, ripropone ai marines di MacArthur i giorni della guerra totale. Marina e aviazione USA si scatenano, città e villaggi nordcoreani (e la stessa Seul) sono ridotti ad un cumulo di macerie. La strategia USA è sempre quella insegnata a West Point fin dai tempi dello sterminio degli indiani d’America: fare terra bruciata e ridurre il nemico all’età della pietra..
La penisola è tagliata in due e le truppe nordcoreane intrappolate al sud sono date per accerchiate e disperse, benchè i prigionieri esibiti siano solo poche centinaia. Il Quartiere Generale di Tokio canta vittoria. La strada verso la frontiera della Manciuria e quella dell’URSS è aperta. E tanto per non essere frainteso MacArthur lancia provocatori attacchi aerei contro il territorio sovietico e quello cinese: l’8 ottobre un aeroporto nei pressi di Vladivostok viene attaccato in pieno giorno da caccia bombardieri americani. Il 7 novembre la città di Sinuiju, sul confine della Manciuria, di fronte ad Antung, viene rasa al suolo dai B 29. “Con questi mezzi i guerrafondai speravano di appiccare il fuoco al mondo”(5).
Le misurate reazioni di Mosca e Pechino e i loro ripetuti inviti al cessate il fuoco vengono scambiati per segni di debolezza.
Da settembre a fine ottobre sono per MacArthur i giorni della vittoria. Le truppe al suo comando proseguono l’avanzata verso est e verso nord : Pyongyan, Wonsan, Hungnam vengono devastate e occupate. L’avanzata si spinge pericolosamente e irresponsabilmente verso il fiume Yalu, la frontiera che separa la Corea dalla Manciuria. Le grandi dighe che alimentano la regione più industrializzata della Cina popolare vengono bombardate. Al nord le truppe ONU sono ormai a pochi chilometri dalla frontiera sovietica.
La “valanga gialla” e la minaccia atomica contro Cina e URSS
Nei primi giorni di novembre accade perciò l’inevitabile: volontari cinesi, veterani della “lunga marcia”, passano il fiume Yalù per combattere a fianco dei nordcoreani. Prende corpo quello che il cinema razzista di Hollywood dipingerà, moltiplicando le cifre per cento, come lo scatenarsi della “valanga gialla” e delle “orde mongole”. La guerra assume dimensioni che gli strateghi di Washington avevano incautamente ignorato. Arroganza e presunzione fanno commettere a MacArthur lo stesso errore di Custer a Little Big Horn. La sua promessa ai soldati americani “a Natale tutti a casa” si sta trasformando in una micidiale trappola : “Mai un generale mise così pienamente in luce la trappola in cui insisteva a voler cacciare le sue truppe, né mai informò così tanto il nemico di tenere la trappola pronta perché stava arrivando” (6).
Nel giro di qualche settimana la situazione sul campo si capovolge e i marines capiscono che quel Natale lo dovranno invece passare accerchiati sui gelidi campi di battaglia del nord subendo l’iniziativa di un nemico che non fa sconti agli invasori. Il loro morale lo si indovina leggendo i resoconti dal fronte del NYT riassumibili nel gesto di Achille che sconsolatamente guarda al suo tallone. E’ ormai chiaro che i cinocoreani stanno mettendo nei guai la più potente forza militare del pianeta.
Il 30 novembre, nel corso di una conferenza stampa il presidente Truman ufficializza le voci di un possibile impiego dell’arma atomica contro la Cina e l’URSS. Il 16 dicembre la Casa Bianca decreta lo stato di emergenza in tutto il territorio americano e richiama alle armi tre milioni e mezzo di soldati americani. In molti fanno notare che l’iniziativa era già stata presa all’inizio di due guerre mondiali. Francia e Gran Bretagna, fedeli alleati, ingoiano l’amara pillola ma cominciano a domandarsi cosa stia accadendo in Corea. La prima è alle prese con due grosse gatte da pelare in Indocina e Algeria. La seconda sta facendo i conti con il dissolvimento del proprio impero. Entrambe cercano di uscire col minor danno possibile dal vespaio coreano. La stessa coalizione dei paesi ONU che sostengono gli Stati Uniti, comincia ad incrinarsi.
Capovolte le sorti del conflitto.
Appaiono sempre più chiari due elementi nuovi di questa guerra : gli Stati Uniti la stanno perdendo sul campo di battaglia mentre i due principali antagonisti, URSS e Cina non vogliono umiliare militarmente l’aggressore ma bensì ristabilire lo status quo antecedente al conflitto. Nel mese di dicembre le sorti del conflitto si sono capovolte e i marines di MacArthur, accerchiati a migliaia nell’estremo nord, subiscono una grossa disfatta . Ma i cinocoreani non infieriscono e lasciano aperto un varco che permetta loro di iniziare la ritirata fin sotto il 38° parallelo. Il primo gennaio 1951, liberato il nord, i cinocoreani rimettono piede a Seul e ostentatamente si fermano. Nei tre mesi successivi le operazioni militari languono in attesa di soluzioni politiche e MacArthur cerca la rivincita sui giornali sparandole grosse. Si vanta di avere fatto 134.616 prigionieri in due mesi di disastrosa ritirata, più di quanti ne hanno fatto i sovietici nella vittoriosa battaglia di Stalingrado Ma le cifre di H.Baldwin sul NYT sono alquanto diverse: “Noi sapevamo di avere esattamente 616 comunisti cinesi prigionieri. Non molto contro gli 8531 americani prigionieri del nemico” (7). Cifre, quelle di MacArthur, ancor più ridicole se rapportate al numero dei volontari cinesi presenti in Corea: 75 mila secondo l’Associated Press, 50 mila secondo il NYT.
Il 24 marzo i cinocoreani si ritirano sul 38° parallelo con la chiara intenzione di restarci. Il 2 aprile il nuovo ministro degli esteri britannico, Herbert Morrison, dichiara che MacArthur deve essere rimosso e che devono iniziare conversazioni di pace. L’11 aprile, il presidente Harry Truman, considerato il rischio di lasciare un pericoloso piromane come MacArthur a gestire l’incendio coreano, lo licenzia dal comando delle truppe ONU sostituendolo col generale Ridgway.
La guerra avrebbe potuto finire lì con un risultato di parità. Gli Stati Uniti avrebbero salvato l’onore e la faccia, la Corea quel poco che era rimasto in piedi dopo i bombardamenti dei B 29. E invece durò ancora per quasi tre anni senza peraltro cambiare di un metro i risultati territoriali acquisiti sul campo. Ma erano gli anni della caccia alle streghe del senatore Mac Carty.
Si scatena il terrorismo chimico e batteriologico.
Lo spettro della “valanga gialla”, alimentato dalle sconfitte militari, dalla paranoia anticomunista e dall’intenso traffico di bare dei soldati caduti nel cimitero di Arlington in Virginia, indusse il presidente Truman a dare il via libera all’uso di armi chimiche, batteriologiche e nucleari contro la Cina e la Corea, il solo modo che restava alla superpotenza di consumare una feroce vendetta contro il piccolo popolo che l’aveva sfidata. Ma la Gran Bretagna e altre nazioni “alleate” si opposero apertamente all’uso delle bombe atomiche, temendo che l’Unione Sovietica, i cui bombardieri distavano due ore di volo da Londra, decidesse di rendere pan per focaccia. Gli Stati Uniti, sempre più soli militarmente, dovettero pertanto limitarsi a sperimentare in prima battuta la nuova tremenda miscela chimica chiamata napalm le cui bombe furono lanciate a migliaia sulla Corea del Nord.
Il terrorismo di massa praticato con l’arma aerea si scatena con tutta la sua micidiale potenza distruttiva contro gli esseri umani e quel poco che è rimasto ancora in piedi. Persino i fienili delle case contadine diventano, in mancanza d’altro, bersaglio dei cacciabombardieri USA.
Ma gli eroici difensori della civiltà occidentale fecero anche di peggio: alimenti infetti (cereali e altre “ghiottonerie”) furono disseminate su zone densamente popolate con l’intenzione di sterminare i civili affamati. I coreani che consumavano derrate infette morivano dopo avere sputato sangue per due/tre giorni.
I segreti di questa sporca guerra sono rimasti a lungo sotto chiave negli archivi top secret del Pentagono e il popolo americano ha sempre ignorato quello che le unità della guerra batteriologica hanno compiuto in Corea fino a che due storici americani dell’Università dell’Indiana, Stephen Endicott e Edward Hagerman, sono riusciti a documentarlo con prove schiaccianti. Nel loro libro – The Unided States and Biological Warfare – Indiana University Press, 1999, si legge di come il Pentagono, si sia servito dell’esperienza di un criminale di guerra giapponese, il generale Ishii, già responsabile della guerra batteriologica contro i cinesi, in Manciuria nel 1937. Reclutato e riciclato dal Pentagono alla causa del “mondo libero”, per la modesta cifra di 25 mila yen, il generale Ishii e alcuni suoi collaboratori furono trasferiti negli Stati Uniti con il grado di “consiglieri speciali” degli esperti americani del settore (. Gli autori citano inoltre le testimonianze dei piloti americani che parteciparono direttamente alla guerra batteriologica (9).
Questo immane massacro compiuto con mezzi chimici, convenzionali e batteriologici è durato, con intensità più o meno maggiore, fino al giorno dell’armistizio, firmato a Panmunjon il 27 luglio 1953. Più di due milioni di morti su una popolazione inferiore ai venti milioni è il prezzo pagato dal popolo nordcoreano. E col paese ridotto ad un cumulo di macerie. Quali le ragioni che hanno scatenato un simile ondata di barbarie ? Perché sessanta anni dopo la fine di quella guerra lo scenario coreano presenta ancora analogie e prospettive altrettanto tenebrose e inquietanti ?
Sessant’anni di precario armistizio sul 38° parallelo.
Occorre innanzitutto ricordare che anche dopo la firma dell’armistizio gli Stati Uniti si sono ben guardati dal concludere una vera pace. E’ invece continuato uno stato di “non guerra”, ovvero di “guerra strisciante” accompagnata da tantissimi “incidenti”. Questi sei decenni sono stati, per la superpotenza, un infinito alternarsi di bugie, minacce, provocazioni militari, false promesse, finte aperture, fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati.
La Corea del Nord è così diventata, giorno dopo giorno di violenti attacchi mediatici, il prototipo dello “stato canaglia”. Non occorre andare molto indietro nel tempo per riscoprire la ossessiva continuità delle ambizioni imperialiste di Washington verso questa piccola porzione di territorio dell’Estremo Oriente, insignificante per dimensioni, ma diventato il crocevia di traffici economici e politici di tre giganti economici, Cina, Russia e Giappone, destinati a diventare nell’immediato futuro, insieme a tutta l’Asia, il centro del mondo contemporaneo.
Secondo Gavan Mc Cormack, grande conoscitore della Corea e autore del libro: “Target North Korea: Pushing North Korea to the brink of nuclear castrophe”, Nation Books, New York, 2004, le ragioni che inducono Washington a tenere la pistola puntata alla testa di Pyongyang sono coerenti con le sue ambizioni imperiali: il pericolo nordcoreano, reale o inventato che sia, concorre a giustificare il dominio che gli Stati Uniti esercitano sul Giappone e la Corea del Sud sotto forma di una massiccia presenza militare e nucleare. Senza questa minaccia, afferma l’autore, “gli strateghi di Washington dovranno trovarsi altre ragioni per perpetuare le loro basi in questi due paesi e per la messa in opera del costosissimo sistema antimissile progettato per questa regione”, costruito a presidio di una postazione strategica avanzata di vitale importanza. La Corea è infatti una gigantesca portaerei terrestre che consente ai bombardieri e ai missili USA di raggiungere in pochi minuti sia la Cina che la Russia.
Sono dunque decenni che Washington aspira a rovesciare, in un modo o in un altro, il regime al potere a Pyongyang ma, paradossalmente, se questo dovesse succedere, sostiene Gavan Mc Cormack, i suoi alleati, Sud Corea e Giappone, non avrebbero più alcun motivo di restare subalterni agli Stati Uniti sul piano strategico. Anzi, un indebolimento dell’egemonia americana in Asia Orientale spingerebbe invece a rafforzare i legami tra i paesi della regione che, grazie al loro dinamismo economico sarebbero in grado di trascinare e integrare, dopo qualche riforma, anche la Corea del Nord. Che ne sarebbe allora del predominio americano in un area considerata dalla Casa Bianca un crocevia strategico di importanza planetaria ?
Certo, gli strateghi americani dispongono di un “nemico” di riserva in grado di rimpiazzare la Corea del Nord, ma le dimensioni di questo “nemico”, la Cina, sconsigliano qualsiasi replica di una politica basata sulle minacce militari come quella seguita contro Pyongyang.
Gli Stati Uniti devono comunque continuare ad avere un vero nemico per poter continuare a mantenere la rete di basi militari in Asia orientale e per giustificare la presenza di quasi centomila soldati, di cui 37 mila in sud Corea. Per mantenere efficiente questo dispositivo militare e per poterlo modernizzare senza sosta, specie quello nucleare, Washington non ha altra scelta che quella di perpetuare il confronto con Pyongyang, qualunque sia stato e sia il presidente in carica alla Casa Bianca: da Harry Truman a Barak Obama, nessuno escluso.(10)
Non è dunque senza ragione che il popolo del nord non abbia mai dimenticato i due milioni di morti massacrati dagli americani. I loro fantasmi sono sempre presenti nell’immaginario collettivo. Solo una normalizzazione pacifica dei rapporti nord-sud e l’avvio di un processo di riunificazione potrebbe farli dissolvere. Ma è appunto quello che la superpotenza americana teme di più e cerca in tutti i modi di impedirlo.
Rileggendo senza pregiudizi i fatti che hanno impietosamente segnato la lunga storia del conflitto tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti come è possibile credere alla ennesima provocazione del sommergibile fantasma che affonda la corvetta sudcoreana ? Ma per favore………
Note:
1) Gerard A: Jaeger “Les Rosemberg”, Edition du Felin, 2003
2) I.F. Stone “The Hidden History of the Corean War”, Monthly Review Press, New York, 1952.
3) Gerard A. Jaeger “Les Rosemberg”
4) Ibidem
5) I.F: Stone
6) Ibidem
7) ibidem
“Il progetto giapponese si basava essenzialmente sull’antrace ed era già stato testato su 1000 soggetti umani, tra cui 150 prigionieri di guerra americani. Nel 1945 i giapponesi avevano uno stock di 400 kg. di antrace. I germi erano stati lanciati sopra città cinesi dentro bombe speciali che si aprivano a un’altitudine programmata disseminando il loro contenuto su una superficie molto estesa. I giapponesi avevano inoltre osservato che gettando pulci infette sui campi di cereali i germi si diffondevano rapidamente veicolati dai roditori. (….) La tattica americana di guerra batteriologica contro la Corea del Nord è stata assai simila a quella del progetto giapponese “731”. Le bombe USA erano caricate con insetti e prodotti vegetali infettati ed erano trasportate da aerei pilotati da ufficiali superiori che volavano in coda alle formazioni di bombardieri. Le bombe batteriologiche venivano perciò sganciate dopo quelle “normali”. Dopo ogni attacco le squadre nordcoreane che arrivavano sul posto per curare i feriti e riparare i danni diventavano potenziali diffusori dei batteri.”
9) “Almeno 36 piloti americani catturati hanno confessato di avere lanciato bombe batteriologiche su obbiettivi coreani e cinesi. Le loro confessioni menzionano in dettaglio il luogo di fabbricazione delle armi (Terra Alta, Indiana), la struttura di comando della guerra batteriologica (Unita 406 di base in Giappone), i tipi di batteri usati e molti dettagli sulle tattiche dei bombardamenti. Questi ufficiali sono stati rimpatriati nel 1953 e, come era prevedibile, hanno ritrattato le loro confessione dopo essere stati minacciati di deferimento alla corte marziale. Analogamente, scienziati e giornalisti che avevano osato rivelare qualche sporco segreto sono stati ridotti al silenzio sotto minaccia di essere processati per tradimento”.
10) Bruce Cuming, esperto americano di politica asiatica dell’Università di Chicago, ha scritto recentemente che nel giugno 1994 l’amministrazione Clinton, ben prima di Bush, si era trovata ad un passo dal lanciare un attacco preventivo contro i reattori nucleari nordcoreani di Yongbyon, a circa 60 km. dalla capitale Pyongyang. Quattro mesi più tardi , grazie all’intervento moderatore di Jimmy Carter, i nordcoreani furono convinti ad accettare l’accordo “frame work” negoziato con l’amministrazione Clinton.
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